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L'eremo di Monte Santa Maria, di cui non conosciamo con esattezza le origini, doveva essere contemporaneo se non preesistente a quello di Soffiano e fu intelligentemente costruito vicino a, più sorgenti d'acqua e poco discosto dal sentiero che da Pian di Pieca, attraversando i caseggiati di San Cassiano e di Vallato di San Ginesio, saliva ai prati di Monte Ragnolo, per scendere poi a Bolognola, Visso e nelle vallate del Nera e del Tevere. Dalle popolazioni circostanti il sentiero era conosciuto come «via di Roma», e a pochi passi dall'eremo si divideva in direzione Monastero, piccolo gruppo montano di case, createsi nei pressi dell'abbazia di S. Maria dell'Isola. In questo eremo, come si è visto in precedenza, con intesa dei signori Brunforte, intorno agli anni 1260 furono trasferiti i pii resti dei beati Umile e Liberato. È da questo tempo che ha inizio la storia del nostro Santuario e del Santo fortunato che, quasi eclissando gli altri, gli ha dato il nome, san Liberato. II capitolo 47° dei Fioretti ha per titolo Di quello santo cui la Madre di Cristo apparve quando era infermo e gli reco vasetti di elettuario. Del «santo frate» di cui si parla in questo capitolo, frate Ugolino non fa, stranamente, il nome, né indica il casato e il natio. Il nome, lo confessa candidamente, lo ha proprio dimenticato: «...del suo nome non me ne ricordo più», scrive. Ciò ha destato molte perplessità tra gli studiosi per l'esatta identificazione del personaggio. La ragione di questa dimenticanza, però, la possiamo trovare nello stesso capitolo 47°, e proprio nel primo periodo che inizia così: «Nel sopraddetto luogo di Soffiano ci fu, anticamente, frate minore...». L'avverbio «anticamente» ci porta indietro di poco meno cento anni, e cioè al tempo in cui il frate senza nome visse e morì a Soffiano (san Liberato morì prima del 1258) e il tempo in cui frate Ugolino scrisse I Fioretti e cioè intorno al 1320-1330.
Questo lungo tempo intercorso, data la labilità della mente umana, ci consente di accettare anche la dimenticanza di frate Ugolino e di coloro dai quali ha assunto notizie. Ma è tradizione ormai ininterrotta di otto secoli che si tratta solo e unicamente del nostro Santo, san Liberato da Loro, oriundo della potente famiglia dei Brunforte. Un grande affresco nelle mura esterne del castello avito Loro ci aiuta ad averne conferma. Per la sua «grande santità e grazia» ha meritato di riempire del suo nome tutta la storia di questa amata terra. Quello che lo scrittore de I Fioretti ci riferisce è sufficiente per farci comprendere la statura spirituale di lui, francescano della prima ora, il quale, pur essendo di distinta famiglia, si fece povero e umile a tal punto da nulla più possedere. Ritiratosi a Soffiano, forse dopo l'incontro con san Francesco, in aveva a sua disposizione che un po' di pane e di acqua di fonte, stessa fontanella dove anche noi possiamo dissetarci anche oggi, quei pochi altri cibi che erano il frutto della carità cristiana; ma si sentiva ricchissimo, perché aveva a disposizione tanti doni di Dio. Di lui frate Ugolino ci dice che «tutto parea divino» e che molte volte «era rapito in Dio»; questo sta a dirci quale sia stata la spiritualità.
Di quando in quando, ma specialmente nei giorni festivi, l'eremo discendeva a rivedere i confratelli nel conventino di Roccabruna, passando per lo stesso viottolo alle sponde del rio Terro che si percorre anche oggi e che gli abitanti del luogo chiamavano chiamano ancora «la strada di san Liberato»; benché animato i spirito eremitico, rimase sempre unito alla comunità di Roccabruna. Una volta che era tutto assorto ed elevato da terra, perchè godeva del grande dono della contemplazione, fu veduto circondato da un folto stuolo di vispi uccellini che andavano e venivano saltellando attorno a lui, e «si posavano sopra le sue spalle, capo, sulle braccia, sulle mani e cinguettavano meravigliosamente». Rinnovava così in sé l'episodio di san Francesco descritto ; capitolo 16° del Fioretti, quando il Santo «predicò alli uccelli e fece stare quete le rondini». Viveva solitario e parlava raramente; ma quando era richiesto di qualche consiglio, rispondeva con tanta signorilità e cortesia da sembrare «più angelo che creatura umana». I Frati lo ritenevano santo e poiché, a volte, dal suo viso emanava tanto splendore, avevano la sensazione di trovarsi di fronte un altro Mosè. Visse così in perpetua unione con Dio e questo, in mancanza di altre notizie, è più che sufficiente per comprendere come trascorresse il suo tempo, giacché quella unione santissima assorbe tutta la personalità nelle più svariate manifestazioni. Giungendo alla fine dei suoi giorni, si ammalò gravemente e non potendo inghiottire alcunché, neppure le medicine, si rivolse al medico celeste Gesù Cristo benedetto e alla sua santissima Madre Maria, pregandoli con tutto il cuore affinchè venissero in suo soccorso.
E un dì, mentre giaceva nel suo lettuccio, ebbe ancora una visione: in una festa di luce gli apparve la Vergine Santissima circondata da sante vergini e da uno stuolo di angeli. Pieno di commozione e di amore, la pregava a calde lacrime affinchè lo liberasse dal suo corpo e lo conducesse alla gloria del cielo. La Madonna lo chiamò per nome e gli disse: «Non dubitare, figliolo; sappi che la tua preghiera è esaudita, e io sono venuta per darti conforto». Così dicendo, gli fece assaggiare un certo liquore contenuto in alcune ampolle che le vergini avevano in mano e appena ne assaggiò cominciò a dire: «Basta, basta, o Vergine santissima...regina e madre mia... salute degli infermi... perché io non posso più sostenere tanta dolcezza!». La Vergine gli rispose: «Sii forte, o figliolo, perché presto ritornerò e ti condurrò nel regno del mio figlio, come hai sempre cercato e desiderato». Detto questo, la Vergine e il suo celestiale corteo scomparvero. Tutto tornò come prima; ma non lui, che rimase così consolato e confortato da non aver più bisogno né di cibi né di bevande. Da quel momento visse unicamente proteso nel desiderio dei ciclo e della gloria che il Padre celeste gli avrebbe riservato. Dopo qualche tempo, mentre parlava piamente con alcuni frati, improvvisamente, con grande giubilo e letizia di spirito, salpò per l'altra riva. Era il 6 settembre 1258. Da questo giorno, per la terra dei Brunforte, per la Custodia di Fermo e per l'intera Provincia della Marca e cominciò una nuova storia. L'eremo di Monte Santa Maria, per la fama e i miracoli del suo protagonista, si venne a poco a poco tramutando in eremo di San Liberato, e dal secolo XIV mantenne sempre questa denominazione. Da eremo divenne convento e, da convento, santuario, fonte di luce, di grazie e di spiritualità, perché qui san Liberato è stato trasferito dalla Grotta di Soffiano, e qui è stato sepolto, accanto ai suoi confratelli beati Umile, Pacifico, Simone ed Ègidio.
E sebbene nell'elenco ufficiale dei santi della Chiesa il nome di Liberato non figuri, tuttavia questo titolo così alto gli è venuto spontaneamente per antichissima tradizione dal sentimento e dalla espressività popolare; e questo, forse, anche in seguito al fatto che il pontefice Onorio IV, transitando nelle vicinanze negli anni 1286-87, e avendo udito le cose meravigliose che si narravano di lui e i miracoli che compiva, sembra che abbia detto "vivae vocis oraculo". cioè, a viva voce: «Questo frate merita davvero di essere proclamato santo...»; ma poi, per motivi che ci sfuggono non si è potuto procedere alla canonizzazione. Però nell'Opera del Papa Benedetto XIV "De servorum Dei", il nostro è chiamato Sanctus Liberatus a Lauro, cioè, san Liberato da Loro, e Clemente XI nel 1713 ne confermò solennemente il culto "ab immemorabili", cioè fin dai tempi antichi. Molti sommi pontefici poi, nel corso dei secoli hanno arricchito la sua chiesa di sante indulgenze. Il suo sepolcro era stato posto al lato sinistro di chi guardar a l'altare maggiore, nello stesso luogo dove erano conservati i corpi degli altri beati. Rinchiuso in una semplice e rudimentale cassa di noce, vi era stata posta sopra una pesante lastra di pietra, contrassegnata da una piccola croce scavata nella stessa in segno di riconoscimento, e il tutto era assicurato al pavimento da una robusta grata di ferro battuto, la quale, in un piccolo scudo porta ancora la data: 1639. Un mattone che fungeva da guanciale è stato ritrovato dei la cassa e sotto il suo capo, ed ora è esposto nella nuova cripta insieme ad altri suoi ricordi. E poiché il beato Umile era volato al ciclo intorno agli anni , 1235-40, san Liberato nel 1258, il beato Pacifico intorno agli anni, 1250-60, è molto probabile che tutti e tre nostri santi personaggi possano aver conosciuto di persona san Francesco ed altri suoi compagni, come frate Simone di Assisi, perché, come scrive qualche storico, avendo il Santo Patriarca sentito parlare dell'alta spiritualità dei frati che abitavano a Soffiano, è probabile ci sia salito anche lui fin lassù, prima o dopo essere stato con fra Simone a Roccabruna soffermandovisi per qualche giorno, come era sua consuetudine, per poi ridiscendere, come abbiamo visto a Campanòtico, e dirigersi quindi verso Sarnano e altre località. Accettare questa ipotesi, significherebbe inserire i nostri personaggi nel numero dei primissimi frati, non solo delle Marche, ma dell'Ordine intero. Se poi si è indovinata la personalità che si nasconde sotto «ricco e gentile cavaliere» che si è «fatto frate minore» e che si e «liberato» da tutte le sue ricchezze per donarsi a Dio e a san Francesco, come abbiamo letto nel capitolo Loro Piceno, anche lui anonimo e anche lui animato dall'unica aspirazione di servire il Signore nella rinuncia a tutto e nel nascondimento, possiamo andarne veramente lieti e ringraziare il Signore che opera negli uomini in forme e modi così meravigliosi.
Liberato, liberatosi da tutto e da tutti, è divenuto il nostro San Liberato!
Fonte Informativa: Santuario di S. Liberato centro vitale della terra de "I Fioretti" - Padre Umberto Picciafuoco - Stampato nel 1987
VI INVITIAMO A VISITARE ANCHE LA PAGINA DI PRESENTAZIONE DI SARNANO
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