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L’abbazia di Santa Croce dei Conti sorge sul versante opposto all’abitato di Sassoferrato, in posizione sopraelevata, vicino alla confluenza dei torrenti Sanguerone e Marena nel fiume Sentino. Costruita dai Conti Atti, Signori di Sassoferrato, negli ultimi anni del Sec. XII per i monaci Camaldolesi con materiali provenienti dalla romana Sentinum (l’antica città i cui resti sono ben visibili alle porte del capoluogo), costituisce una delle più importanti testimonianze d’architettura romanica della regione.
L’abbazia è un complesso architettonico appartenente ad un gruppo di quattro chiese - San Vittore alle Chiuse (Genga - An), Santa Maria delle Moje (Maiolati Spontini - An) e San Claudio al Chienti (Corridonia - Mc) - datate tra l’XI ed il XII secolo. Tali edifici di culto rappresentano un unicum nella regione, essendo caratterizzati da una pianta a croce greca inscritta: si tratterebbe di uno schema di origini orientali molto diffuso nelle chiese bizantine della Grecia e dei Balcani. Inglobata all’interno del complesso abbaziale, la chiesa di Santa Croce è stata recentemente restituita al suo antico splendore da interventi che hanno riguardato sia il consolidamento statico e la struttura architettonica, sia i restauri degli elementi lapidei (capitelli, paraste) e delle decorazioni parietali.
Il nucleo centrale della chiesa è definito da quattro alti pilastri compositi, addosso a ciascuno dei quali sono collocate due semicolonne in granito e pietra calcarea, provenienti da Sentinum. Nell’edificio furono infatti utilizzati molti materiali classici provenienti dalle rovine dell’antica città: qui i monaci trovarono numerose lapidi di epoca romana che custodirono gelosamente. Sono inoltre visibili una serie di interessanti capitelli di derivazione lombarda, scolpiti in calcare bianco, che prevedono motivi geometrici, vegetali, con bestiari e animali fantastici, ed uno, con l’unica scena sacra, che rappresenta la Crocifissione, tema strettamente legato con la dedica della chiesa alla Santa Croce.
Questi sono da mettere in relazione con l’arte romanica lombarda e si datano variamente tra l’XI e il XIII secolo. Ciò che caratterizza la chiesa è il modo regolare e organico con cui il materiale romano è stato inserito, non con intento esclusivamente utilitaristico, ma anche con precisi fini stilistici e decorativi. Un profondo nartece voltato a botte introduce al portale di accesso alla chiesa ed è decorato con una complessa modanatura formata da tre archi a tutto sesto concentrici, che ripropongono la tematica dei bestiari e degli animali fantastici. Finemente decorata è anche la lunetta che sovrasta il portale d’accesso vi è rappresentata la Vergine che stringe a sé il Bambino, secondo una composizione che ha fatto avanzare l’ipotesi che si tratti di dell’opera di Giovanni Antonio da Pesaro.
A causa degli interventi di restauro e degli ampliamenti che ne hanno caratterizzato la storia non è facile oggi poter seguire dall’esterno l’andamento del perimetro originario della chiesa, anche perché non solo l’edificio è stato inglobato nella struttura conventuale ma, nel corso dei secoli, le sono stati addossati dei corpi di fabbrica sul lato nord che hanno mutato sostanzialmente la sua forma esteriore. Inoltre, uno degli ultimi interventi di restauro, nel 1913, ha modificato parti interne dell’edificio, ricoprendo le pareti e le volte con una ridipintura dal carattere di finto travertino. Secondo gli studiosi la chiesa doveva avere una copertura con tetto a doppio spiovente e tiburio ottagonale all’incrocio tra le absidi aperte sui muri longitudinali delle navatelle minori (come la chiesa di S. Vittore a Genga).
Sono originali di epoca romanica i due ambienti quadrangolari posti ai lati dell’odierno portale d’ingresso. Il vano posto sul lato nord è costruito su una struttura semicircolare, probabilmente attribuibile alla prima edificazione, ora visibile solo come fondamenta del vano quadrato. La chiesa, che dalla fine del XIV Secolo venne arricchita da affreschi di scuola fabrianese, presenta al suo interno pregevolissime opere pittoriche a cominciare dalla raffinatissima pala raffigurante San Benedetto, realizzata nel 1524 da Pietro Paolo Agabiti.
Degno di nota è anche lo splendido paliotto ligneo intagliato del Sec. XVII, decorato con preziose dorature. E poi ancora un dipinto su tela raffigurante “San Romualdo e Pietro Orsoleo, doge di Venezia, della fine del Sec. XVII, probabilmente opera di Antonio Zanchi o del suo allievo Francesco Trevisani,e un San Rocco in terracotta invetriata della seconda metà del XV Sec. L’opera più importante, il maestoso polittico del Sec. XV di Giovan Antonio da Pesaro, è invece conservata, presso la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino.
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