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NELL’ANNO DI GRAZIA 947
La Nascita del Castello
II topònimo di Acquaviva lo troviamo per la prima volta nel Regestum e nel Chronicon di Gregorio da Catino. I due testi, dei quali il Chronicon costituisce la sintesi del più vasto Regestum, sono una raccolta degli atti giuridici concernenti le proprietà dell'Abbazia di Farfa. Furono stilati, presumibilmente, per porre ordine nel gran numero di acquisti e donazioni e quindi per costituire uno strumento in caso di contenzioso. Nel Regestum il documento che ci interessa è il 354 ed è relativo all'anno 947. In esso così è scritto: «... la stessa isola suddetta e la chiesa e il castello tra Acqua Viva. E la stessa Chiesa di San Martino con i suoi beni che è sita nella stessa piana del Chienti...»(—ipsam suprascriptam insulam et aecclesiam et castellum infra aquam vivam. Et ipsam aecclesiam sancii martini cum dotis eius, quae sita est in ipso plano de denti...). Nel Chronicon, a conferma di quanto già nel Regestum, si legge:«...inoltre diedi per libello ad un certo Rodoaldo, visconte, un'isola presso il fiume Trento con la sua Chiesa di Santa Maria e con il castello tra la stessa Acqua Viva e la chiesa di San Martino nella piana del Chienti...»(...item dedit per libellum cuidam Rodoaldo vicecomiti quandam insulam iuxta fluvium Trontise cum ipsius ecclesia Sanate Marie, et cum castello infra ipsam Aquam Vivam, et ecclesiam Sancii Martini in plano Clentis...). Nel Chronicon Acquaviva viene ricordata anche all'anno 1054.
Ma quando è effettivamente nata Acquaviva?
In mancanza di fonti antecedenti all'anno 947 possiamo solo fare delle ipotesi. Lo storico G. Castelli sostiene che essa fu fondata dai profughi di Truentum. I cittadini di Truentum e di Castrum Truentinum, la zona militare della città, vessati dalle continue incursioni, avvenute tra il VI e il IX secolo, ad opera dei Longobardi, cercarono scampo inizialmente in altri borghi quali Civita Tomacchiara e Torri a Tronto. In seguito, risultati questi borghi poco sicuri anche per le sopravvenute incursioni saracene e per l'innalzamento del mare, le popolazioni si rifugiarono sulle colline più arretrate rispetto alla linea costiera. Vennero così fondati alcuni villaggi fortificati tra i quali, appunto, Acqua viva. Se alla data 947 la località è degna di menzione tra i possedimenti farfensi, essa doveva comunque già costituire un'entità economicamente e politicamente appetibile. Una nuova citazione compare nel 1034, anno in cui viene stilato il documento col quale Umberto, vescovo di Fermo, cambia con Longino fu Azzone alcuni terreni. E' Longino ad avere le «pertinentia de Aqua Viva».
Tre anni dopo Acquaviva compare in un altro atto. E' una "precaria", un contratto col quale un privato ottiene un prestito di beni dal vescovo. Luitulfo chiede al vescovo di Fermo, Umberto, per sé e per i suoi parenti, fino alla terza generazione maschile, alcuni ettari di terreno in località Ginestreto, in Contrada Acquaviva. Un atto del 1039 è particolarmente significativo per le vicende della nostra zona. Con esso Longino, già citato nel documento del 1034, dona al Monastero di Farfa la sua parte del castello di Acquaviva: «et meam portionem de castello Aqua viva». E' la prima volta che si trova citato il "Castello", un dato particolarmente significativo perché con tale termine si indicava un intero paese difeso da mura e rafforzato da una rocca. Si può supporre che all'epoca il Castello fosse già ben strutturato, anche se ristretto in quella zona che oggi si chiama Terra Vecchia, con un unico accesso offerto dalla porta, detta Porta Vecchia, munita di torre e di saracinesca. Come Acquaviva da feudo farfense sia giunta ad essere feudo di una famiglia, è da ricercare nelle vicende della celebre abbazia laziale che, per molti anni, fu retta da abati filoimperiali.
Nel 1202 la Marca d'Ancona, con la morte del margravio imperiale Marquado, era tornata sotto la Chiesa. Ma solo dopo pochi anni l'imperatore Ottone IV, pur avendo promesso di rispettare i beni della Chiesa, inviava il conte di Celano ad occupare quei territori e, impossessatosi della zona, l'aveva concessa in feudo ad Azzo VI d'Este e da questi ai suoi successori. Le mire dell'Imperatore furono in parte ostacolate dal Vescovo-Conte di Fermo e dall'Abate di Farfa che avevano precedentemente lottato contro Marquado. Non potendo armarsi contro l'Imperatore essi favorirono la nascita di libere Comunanze, con potere di eleggersi massari e giudici, nei territori già loro soggetti. Ma mentre alcune città, specie rivierasche, riuscirono ad ottenere una autonomia polico-amministrativa, ciò non riuscì a tante altre che rimasero soggette al feudatario. Acquaviva dovette quindi trovarsi ad essere affidata a qualche vassallo. Nella Marca, infatti, il regime feudale ebbe vita più lunga che nelle restanti parti d'Italia e tale vitalità spiega il nascere e il fiorire degli Acquaviva nella zona.
La famiglia che governava Acquaviva, che secondo alcuni storici ebbe origine dai Conti Truentini, fondatori di Ripatransone, era divenuta sempre più potente ed i suoi possedimenti si erano estesi a vasti territori nella Marca, in Abruzzo e nel Regno di Napoli. Per quel che concerne la zona del Tronto essa disponeva, all'inizio del XIII secolo, anche delle terre di San Benedetto e di quelle di Monteprandone, tanto da poter infeudare quest'ultime. Il documento relativo, alla data 1225, nomina, quali signori di Acquaviva, Enrico, Gualtiero, Taddeo figlio di Riccardo loro nipote, Matteo di Berardo di Ottone e Albertino Vinciguerra. Il paese nel frattempo aveva consolidato l'aspetto di fortezza inaccessibile perché completamente cinto da mura, alcuni tratti delle quali erano costituite dagli stessi muri delle case. Gli Acquaviva, sempre filoimperiali, rinsaldarono il loro ruolo con le nozze di Forasteria, figlia di Rinaldo Acquaviva, con Rinaldo di Brunforte, legato all'imperatore Federico II che lo incaricò, tra l'altro, di ricevere i giuramenti di coloro che avessero abbandonato la causa papale. E' probabile che lo stesso imperatore passasse per Acquaviva dal momento che beneficò i francescani che vi si erano insediati affinchè potessero provvedere all'erezione di un convento.
Ma la morte di Federico II, nel 1250, gettò non poco scompiglio tra i suoi seguaci. Ne è segnale un atto del 1251 nel quale viene citato Rinaldo de Acquaviva a riprova che il toponimo era stato trasformato nel "cognome" della famiglia. Con questo documento Elena, figlia di Rinaldo, cede la sua parte di eredità alla sorella Forasteria moglie di Rinaldo di Brunforte, ottenendone un pagamento di 250 once d'oro puro. A quei tempi però dal feudo si era già separata Ripatransone essendo pervenuta sotto il diretto dominio papale, mentre Acquaviva rimaneva imperiale. Le diuturne lotte tra l'Impero e il Papato erano nel frattempo giunte ad una risoluzione finale, infatti Rodolfo I d'Asburgo cedeva definitivamente a papa Gregorio X (1271-76) il Ducato di Spoleto, l'Esarcato e la Marca d'Ancona. Il nome di Foresteria compare in numerosi documenti dell'epoca. Già nel 1280 ella fatica a far accettare a Matteo, Corrado e Pietro, signori di Acquaviva, il procuratore suo e dell'altra sorella Tommasa. Evidentemente quelli non volevano eccessive intromissioni non tanto di Forasteria quanto del potente marito. La storia è ricca di personaggi "buoni" e "cattivi", a seconda dei vari punti di vista.
Sempre parlando degli Acquaviva, infatti, Riccardo può essere biasimato non solo per aver commesso efferatezze in occasione di guerre tra castelli, ma anche per aver venduto, al Comune di Fermo, nel 1283, la quarta parte del Castello di San Benedetto. Ma già Gualtiero di Acquaviva aveva venduto, due anni prima, sempre a Fermo, l'ottava parte del Castello di San Benedetto. Invano Forasteria, rimasta vedova, con le sorelle Elena e Tommasa, cercò di frenare la divisione dei beni paterni. Gualtiero, Riccardo e Jacobuccio erano di differente avviso. Le mire della famiglia erano evidentemente rivolte verso gli altri possedimenti italiani tanto che il progressivo cedimento delle terre culminò, nel 1341, con l'atto di vendita di tutto il feudo alla città di Fermo. Francesco Acquaviva, l'ultimo castellano, ne ricavò 7500 fiorini d'oro. L'atto, stilato su pergamena, e conservato nell'Archivio di Stato di Fermo. La famiglia Acquaviva, tuttavia, continuò a prosperare a lungo e fu insignita del titolo di Duchi di Atri. Anche se alcuni storici del passato negano che Acquaviva Picena fosse la culla della famiglia, indicando in sua vece il Regno di Napoli (Pompeo Litta) e l'Abruzzo (Cosmo De Bartolomei), altri storici, quali Flavio Biondo e Leandro Alberti, nel XVI secolo, accreditano le origini marchigiane. In particolare Flavio Biondo, nella sua Italia Illustrata (Venezia, 1510), così scrive:. «Tribus ab hoc oppido (Monteprandone) et totidem milibus a Ripa Transonum abest Acquaviva oppidum ex quo duces Adriae provinciae aprutinae origi-nem duxere». Di identico parere è Leandro Alberti che, nella Descrizione dell'Italia (Bologna, 1550) ribadisce:«...il nobilissimo castello d'Acquaviva illustrato dalla nobilissima famiglia detta d'Acquaviva». Anche lo storico contemporanero Gabriele Nepi sostiene, quale culla della famiglia, la località picena.
ACQUAVIVA, CASTELLO del COMUNE DI FERMO
La posizione di Acquaviva fu sempre ritenuta da Fermo strategicamente molto importante, tant'è che provvide più volte a consolidare le difese del Castello e della Rocca fino a giungere ad una completa riedificazione di quest'ultima. La collocazione, infatti, la rendeva indispensabile per il controllo del litorale da San Benedetto fino ai possedimenti della nemica Ascoli. Per circa novant'anni, dopo il passaggio a Fermo, non si registrano particolari avvenimenti e si può ipotizzare che il nostro Castello svolgesse il suo ruolo difensivo senza trovarsi al centro di dispute particolarmente significative. Ma nel 1432 si verificò un fatto inopinabile: Giosia Acquaviva, forse desideroso di restituire alla famiglia il luogo natale, corruppe il Capitano della Rocca, che era originario di Monte Granaro, e, il 7 novembre, entrò nel Castello. Gli abitanti non poterono che constatare il dato di fatto. Giosia riuscì a conservare Acquaviva per sei anni poi, nel luglio del 1438, dovette cedere alle truppe di Francesco Sforza.
E' forse opportuno ricordare che Alessandro Sforza, fratello di Francesco, era stato nominato, da papa Eugenio IV, Gonfaloniere di Santa Chiesa e Marchese della Marca Anconetana e, già dal 1433, risiedeva a Fermo. Poiché Ascoli era stata occupata dal brigante Guerriero, 3000 uomini partirono da Fermo, sotto il comando di Francesco, determinati a liberare la città. Ma, poiché per andare ad Ascoli si doveva transitare vicino ad Acquaviva, Francesco reputò opportuno riconquistare al Papa quel feudo. Lo Sforza, vinto Giosia, non si limitò a togliergli il Castello avito ma lo spogliò anche dei feudi abruzzesi tra i quali l'importante città di Teramo. Ma a quei tempi le alleanze erano assai labili tant' è che il papa Eugenio IV, essendo gli Sforza pervenuti ad eccessiva potenza, pensò di ritirare loro quanto prima accordato e si alleò con Alfonso d'Aragona. Questi venne con il suo esercito nella Marca per cacciare gli Sforza contro i quali il Comune di Fermo, nel 1446, si era già ribellato.
Acquaviva, approfittando dei contrasti tra i potenti, aveva riottenuto una sua indipendenza sotto il comando di Balduccio da Tolentino, detto "il morto". Fu solo il tradimento a restituirla ai Permani. Infatti un certo Manduzio, acquavivano amico di Fermo, permise ai soldati di entrare nel Castello attraverso la sua casa. Una volta preso il Castello, i Permani si impossessarono anche della Rocca. Ne seguirono distruzioni, saccheggi e persecuzioni ma, finalmente, il 2 giugno 1448, Fermo ed Acquaviva firmarono un trattato di alleanza col quale Angelo Bartolomei, delegato di Acquaviva, si impegna «di fare guerra e pace secondo il volere della città di Fermo». La Rocca e il Castello rimasero seriamente compromessi dall'assalto fermano tanto che, alcuni anni dopo, si provvide alla loro quasi completa ricostruzione. Dal 1448, salvo casi sporadici, Acquaviva fu saldo baluardo di Fermo che impose un suo Vicario, con carica annuale, retribuito e alloggiato a spese della comunità acquavivana.
Il Vicario, suprema carica del paese con funzioni di supervisore, interveniva nei consigli e controllava che tutto venisse legiferato conformemente agli statuti fermani. Il paese era retto 'da un Consiglio di Comunità, composto da Consiglieri il cui numero variava da 20 a 40. Tra i Consiglieri vi erano, per legge, due ecclesiastici, uno del clero secolare ed uno del clero regolare. Tra i Consiglieri erano tratti a sorte quattro Massari con poteri esecutivi, i quali restavano in carica per due mesi. L'essere al confine tra il territorio di Fermo e quello di Ascoli faceva di Acquaviva una postazione sempre in stato di allerta, se non di lotta aperta. Tra le più frequenti cause di conflitto vi furono questioni di confine, in particolare con i limitrofi San Benedetto, che pure apparteneva allo Stato di Fermo, Monteprandone, che apparteneva allo Stato di Ascoli, e Ripatransone. Di antichissima data furono i contrasti con Ripatransone circa il territorio della chiesa di Sant'Angelo in Trifonzo, presso la località detta Valle di San Savino dove si ergeva l'omonima chiesa. A dirimere i contrasti si operò anche, nel 1451, San Giacomo della Marca. Il grande Santo marchigiano, la cui madre era di Acquaviva, fu chiamato anche per porre pace tra Acquaviva e Monteprandone.
La definizione del confine, che fu stabilito lungo il corso del fiume Ragnola, fu stipulata con un articolato trattato che prescriveva, tra l'altro, che i rappresentanti dei due comuni giurassero presso l'immagine della Madonna di Casalicchio nel territorio di Montemonaco. Il fondamentale ruolo difensivo di Acquaviva convinse Fermo, nel 1474, a procedere ad un totale ripristino delle opere difensive. Allo scopo si pensò di chiamare «quello magistro fiorentino che ha fabbricato la rocca di Senegallia», cioè Baccio Pontelli. E' difficile, tuttavia, documentare l'entità dell'intervento del Pontelli. Nelle carte dell'epoca troviamo che nel 1486 Fermo «fece edificare il castello nuovo di Acqua viva» di cui era commissario Brancadoro de' Brancadori. E' da presupporre che i lavori di ripristino riguardassero in prima istanza la Rocca, poi il Castello. Nella Rocca a quel tempo erano alloggiati 50 soldati regolarmente retribuiti. Acquaviva contava all'epoca circa 500 abitanti. Il numero è deducibile dall'indicazione che, alla data 1487, sono documentati 60 capifamiglia che pagavano la tassa del "fumante", cioè coloro che, abitando nel Castello, avevano un certo reddito. Da un calcolo approssimativo di circa 5 persone per famiglia, e con l'aggiunta di un certo numero di altre non paganti, si giunge all'ipotetico numero complessivo di 500. Seguirono anni relativamente tranquilli, anche se funestati da tumulti, da assalti di briganti, che tolsero la Rocca ai Fermani, sia pure per periodi molto brevi, e, soprattutto, dalla peste, che a più riprese falcidiò la popolazione di tutto il territorio.
Conosciamo i nomi di alcuni castellani e le fondamentali opere di ripristino delle difese. In particolare furono eseguiti lavori nel 1491 e nel 1492, anno in cui si eresse una Rocca Minore. Tale Rocca è forse da individuare nel torrione posto all'estremità Est del paese. Questo, infatti, si era notevolmente allargato con l'aggiunta di una nuova zona detta Terra Nova e con l'apertura di altre due porte, Porta da Sole e Porta da Bora. Si trattava di un nuovo nucleo di case costruito su di un colle adiacente al primo nucleo di Terra Vecchia, il quale fu posto sotto la protezione della nuova Rocca con un suo Castellano (forse il primo fu, nel 1499, Gentilino Lippi). Tra gli ospiti del Castello, si segnala la presenza, nel 1498, di Andrea Doria. Nel corso del XVI secolo furono eseguiti altri lavori e, in particolare, furono costruite case sopra i torrioni parzialmente diruti. Anche in questo secolo non sono da rilevarsi fatti sostanziali, ad eccezione di un avvenimento che, indirettamente, coinvolse Acquaviva. Nel 1571, infatti, Ripatransone venne elevata da papa Pio V al grado di città e di sede vescovile. Il primo Vescovo fu il napoletano Lucio Sasso che fece il solenne ingresso in diocesi il 23 marzo 1578. Nella delimitazione del territorio della nuova diocesi, Acquaviva, che contava allora circa 650 abitanti, si trovò a dipendere da Ripatransone. Tuttavia per lungo tempo gli Acquavivani si considerarono sotto la diocesi di Fermo.
Lo stesso vescovo di Fermo continuò le sue visite pastorali ad Acquaviva ed a quelle località che preferirono la sua diocesi a quella di Ripatransone. Per tutti, tuttavia, l'importante era non finire sotto la diocesi dell'eterna rivale Ascoli. Anche il secolo XVII trascorse senza avvenimenti conclamati e, in una condizione di relativa calma, il numero degli abitanti sali a 1400 circa. La Rocca, necessitando di interventi, fu più volte restaurata e, nel 1619, fu aggiustato il ponte levatoio. Da documenti del 1635, inoltre, si rileva che era ben costituito lo spiazzo sottostante la Rocca. Lo comprova la circostanza che il proprietario di una delle case, tale Francesco Foglietta, chiedeva di poter aprire una finestra nel lato a valle, munendola di inferriata. Tale licenza, peraltro accordata, testimonia da un lato il ruolo difensivo delle case poste nella cinta esterna, dall'altro che il timore di assalti era andato nel tempo attenuandosi tant'è che si consenti l'alleggerimento del muro con l'apertura di una finestra, sia pure rafforzata da una inferriata. Di quel che avvenne anche per buona parte del secolo XVIII abbiamo scarsissime notizie perché tutti i documenti comunali sono andati perduti. Oscillante fu il numero degli abitanti che, sceso all'inizio del secolo al numero di 1200, salì in seguito a 1600 circa. Tra gli avvenimenti più rilevanti si ricorda, alla data 1787, la costituzione, ad opera di Don Paolo Assalti, dell'Opera Pia Ospedale. La vita sembrava scorrere sempre uguale ma si annunciava una ventata di profondi sconvolgimenti!
LA FORTEZZA
Molte e interessanti notizie sulla Rocca d'Acquaviva sono desumibili dai Registri delle Lettere dello Stato di Fermo. Se infatti scarse sono le fonti ed i reperti della Rocca primitiva, il cui nucleo più cospicuo, risalente al 1300, si dovette agli Acquaviva, numerose sono invece le notazioni che concernono la ricostruzione resasi indispensabile a seguito della distruzione operata dai Permani nel 1447. La ricostuzione, che i documenti assegnano a Giovan Francesco Azzolino alla data 1474, fu affidata inizialmente a Maestri Lombardi. Interessantissima è la carta 150 dei citati Registri che cita testualmente: «La Communita nostra haveria desiderio potendose per opera vostra che quello magistro fiorentino che ha fabricato la rocca di Senegallia, venisse sino qui che vorressimo farli vedere il loco comodo iuxta al suo iudicio al fare la rocca di Acquaviva». Il "magistro" fiorentino è Baccio Pontelli che, dal 1479 al 1491, costruì per Giovanni della Rovere la Rocca di Senigallia. Autore anche del Castello di Ostia, il Pontelli lavorò molto nelle Marche, sotto papa Innocenze Vili, alle fortezze di Offida, di Jesi e di Osimo.
Non sappiamo se e in che misura il Pontelli pose mano alla Rocca di Acquaviva. E' certo che l'impegno profuso fu notevole e molte carte fermane si soffermano sull'entità del materiale usato e delle forze umane impegnate. La Rocca, governata da Fermo, fu occupata, sia pure per brevi periodi, da Giosia d'Acquaviva, dallo Sforza, dagli Acquavivani sostenitori della rivoluzione giacobina, dal brigante Sciabolone. Nel 1845 passò in enfiteusi ai Conti Neroni Cancelli. Nel 1870 l'aquistò la famiglia Rossi Panelli che la cedette al Comune senza aumento di prezzo. Tale vendita avvenne nel 1907 all'atto dell'utilizzo del Mastio per una cisterna di raccolta delle acque provenienti dalle sorgenti di Paterno. Due lapidi nella Rocca ricordano l'enfiteusi ai conti Neroni Cancelli e la vendita al Comune da parte dei Rossi Panelli.
La Rocca si presenta con pianta a quadrilatero irregolare, che racchiude un'ampia corte centrale anch'essa quadrilatera, con pozzo, con i vertici rafforzarti da torrioni. Un corridoio con piccoli appostamenti a casamatta è ricavato nello spessore della muraglia. Un tempo doveva essere cinta da fossato. Il torriore più alto, il Mastio, ha forma circolare ed e alto circa m. 22. Fortemente accentuata è la scarpata a cono il cui attacco e sottolineato da un cordone, come nelle Rocche di Cesena e di Brisighella. Nella parte alta la struttura difensiva aggettante poggia su eleganti beccatelli. Un tempo doveva essere coronata da merli poi sostituiti da un parapetto nel quale vennero ricavate "troniere", alloggiamenti per piccoli pezzi di artiglieria. L'interno è occupato da due vani voltati con finestre con sedili, tra loro collegati da una scala in muratura. Il Mastio domina la piazza Del Forte le cui case sono disposte in modo da formare un'elegante corte. Verso l'esterno è ornato con due stemmi: l'Aquila Imperiale su uno scudo e l'antico stemma della città di Fermo con una croce ed una iscrizione oggi illegibile.
Il torrione posto in diagonale rispetto al Mastio è a pianta pentagonale. E' anch'esso munito di difesa su beccatelli e presenta un'altissima scarpata a spigoli vivi a precipizio quasi sulla vallata. Vi si aprono feritoie per bocche da fuoco, circolari e con taglio superiore. Anch'esso presenta, all'interno, due vani sovrapposti un tempo chiusi ma ora visibili dalla corte. E' affiancato da una posteria, la piccola porta di collegamento con l'esterno ad esclusivo uso militare, che immette in un lungo corridoio voltato a botte che accede direttamente al suo interno. Le altre due torri sono di più limitate proporzioni. L'una pentagonale e l'altra quadrata, si affacciano sugli altri due versanti del paese; erano destinate ad armi leggere quali colubrine ed archibugi. L'intero complesso fu restaurato alla fine dell'ottocento dall'architetto marchigiano Giuseppe Sacconi. Sulle caratteristiche della Rocca, e, in particolare, sull'accentuato scarpamento, così si esprime Luigi Serra:«...sembra accennare ai princìpi di Francesco di Giorgio Martini e di Leonardo, mentre il torrione pentagono molto scarpato e con le facce notevolmente sviluppate pare preludere addirittura ai baluardi del secolo XVI».
Abraham Ortelius, Italia (1584)
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